Me lo ricordo molto bene quel
lontano giovedì 29 gennaio dello scorso anno. La sveglia suonò presto, verso le
sette del mattino. Era un giorno come tutti gli altri, se non fosse per il
primo esame che avrei dato nella mia carriera universitaria. Verso le dieci
sarebbe cominciato l’esame di Storia del Cinema, una materia facoltativa da
soli sei crediti per cui non ho minimamente aperto libro e appunti. Alle otto e
trenta ero già a bordo del treno regionale diretto verso Venezia, ma era Padova
la mia tappa finale.
Dovevo trovarmi con un’amica,
anche lei sul mio stesso treno, per poi andare verso il luogo dell’esame
insieme ad un’altra amica in comune, pure lei intenzionata a dare l’esame.
Camminata tranquilla nel freddo e nella nebbia – tipica a gennaio nella pianura
Padana – a parlare del più e del meno.
Arrivammo a destinazione, nel
Dipartimento di Storia situato vicino al Duomo di Padova, in cerca della
fantomatica aula. Quando aprimmo la porta, la scena che ci compare davanti a
noi è la seguente: diversi studenti intenti a ripassare svariati fogli di
appunti.
L’aula è piuttosto grande,
fornita di diverse poltrone molto comode, più adatte a una dormita che a un
ripasso pre-esame. Ci sistemammo sulla
sinistra rispetto al grande banco posto al centro dell’aula, ci togliemmo i
cappotti ed io, gentilmente, chiesi alla mia amica se potevo ripassare sui suoi
appunti; una letta veloce di circa una ventina di pagine che mi rende già
pronto per l’esame, anche se effettivamente ero un pochino preoccupato.
Il professore arrivò in ritardo
di qualche decina di minuti. Essenzialmente è un uomo di una cinquantina
d’anni, di media statura, capelli grigi scuri ondulati, occhiali neri e una
pancia un po’ rilevante. E’ una persona serena, che deve prendersi varie pause
per fumarsi una sigaretta. La mia tecnica era la seguente: osservare le
interrogazioni e prepararmi a parlare di qualcosa che non so. La mia fortuna era
quella d’essermi iscritto nella metà, dunque avere tutto il tempo per esser
tranquillo.
Il professore, appena entrato,
rivelò come si svolgerà l’esame: un paio di domande ciascuno e, vista la
quantità di gente, poteva rinviare al giorno dopo chi non fosse stato
interrogato. Ma ecco dietro l’angolo la cattiva notizia, la lancia che colpisce
il cuore, la pugnalata alle spalle: si andrà in ordine alfabetico di cognome.
Ero fottuto. Essendo il mio
cognome per B, mi ritrovai ad essere secondo. Dopo essermi letteralmente cagato
in mano nei primi cinque secondi, presi un po’ di fiato e conquistai gli
appunti della mia amica. Iniziai a dare una rapida controllata mentre il primo
ragazzo interrogato si diresse verso la sedia posta davanti al bancone.
Il suo è un esame che non stava
certamente andando bene, dato che aveva risposto a metà la prima domanda e alla
seconda aveva spiaccicato qualche parola. Alla fine il ragazzo avanzava il
proprio libretto universitario – probabilmente era uno del secondo o del terzo
anno – e il professore scrisse il voto. Pensai fra me che la valutazione data
sia un diciotto, quindi non mi preoccupai più di tanto. L’unico problema era
che mi ritrovavo una cinquantina di persone pronte ad ascoltarmi e non volevo
certamente fare brutta figura; era un po’ come ritrovarsi al debutto in Formula
1, con gli addetti ai lavori pronti a parlar male dopo un piccolo errore.
Venni finalmente chiamato e io mi
diressi senza paura verso la cattedra. Mi sedetti, ma ero leggermente in
tensione e lo si poteva notare dal sudore che mi stava uscendo dalle ascelle.
La prima domanda che mi venne posta riguardava il montaggio, su cos’era e le
varie parti che lo componevano. Questo argomento non era mai stato trattato,
tantomeno non era presente negli appunti. Penso di non aver mai ringraziato
Canesecco – Matteo Bruno, noto youtuber italiano malato di fotografia e di
riprese – per i suoi video tecnici come in quel momento. Primo ostacolo
superato.
Pure la seconda domanda era
semplice, poiché dovevo parlare della figura comica di Charlie Chaplin. Sapevo
come parlarne, ma non so per quale strano motivo sbagliai a dire il nome di
Charlot, sostituendolo con Pierot. Il professore non se ne accorse, quindi
continuai a parlare come se nulla fosse. Alla fine mi ritrovai con la bocca
impastata di saliva, ma soddisfatto. Il professore mi chiese se era il primo
esame e io annuì per affermare di sì. Mi
diede un trenta e mi girai per tornare al posto.
Subito molte persone mi chiesero
cosa avessi preso e dissi tranquillamente il mio voto, tranquillizzando la
gente sulla facilità dell’esame. Scoprii poi che il ragazzo che mi aveva
preceduto aveva conquistato un ventiquattro, certamente un voto al di sopra
delle mie aspettative.
Aspettai che arrivasse anche il
turno della mia amica – la ragazza con cui prendevo lo stesso treno –, che
arrivò dopo pochi minuti essendo il suo cognome per D. Prese un ventisette, ma
certamente immeritato date le domande; il professore gli chiese pure di
spiegare il cinema ungherese, cosa introvabile pure sul libro di testo.
L’altra nostra amica, che aveva
il cognome per Z, era tra le ultime. Io e la mia amica decidemmo di tornare a
casa verso mezzogiorno e mezzo e di prendere il treno dell’una e otto minuti.
Arrivati a Vicenza, salutai la mia amica e presi il bus diretto a casa mia,
dopo aver aspettato diversi minuti. Ricordo che avevo litigato con la mia
ragazza dell’epoca, ma gli annunciai lo stesso l’esito del mio esame.
Il viaggio tranquillo di ritorno
durò circa mezz’ora e tornai a casa verso le due e un quarto. Presi la mia
Rossana (una bicicletta simile alla Graziella di color arancione) parcheggiata
vicino al municipio e mi diressi a casa. Quando entrai in cucina trovai mia
madre e le comunicai il mio voto; lei era entusiasta e, successivamente, mi
tirò fuori il piatto di pasta al ragù che mi aveva preparato. Io lo presi e lo
posi nel microonde e presi poi il cellulare per vedere gli ultimi messaggi di
WhatsApp.
Il messaggio che lessi fu
agghiacciante, un misto fra l’incredulo e la confusione. Nel gruppo dei ragazzi
del camposcuola, frequentato la scorsa estate, un amico annunciò la morte di
uno dei ragazzi. Lo lessi tre, quattro volte, ma non riuscivo a comprendere la
situazione. Ingenuamente, scrissi di getto un “Stai scherzando spero”.
La mia giornata procedette come
tutte le altre, ma con la consapevolezza che qualcosa era cambiato. Presi in
mano il libro del Gruppo Nutella, di cui lui faceva parte, e rilessi tutto il
pezzo che c’era dentro al libro. Notai che una parte era in perfetta sintonia
con il brano “Voyager” dei Daft Punk e con il suo video musicale. Penso che
quel video me lo sia visto un paio di volte nell’arco di un’ora.
Una mattina che era andata bene
si è trasformata in un giorno grigia e fredda, in sintonia con il tempo di
quella giornata. Un trenta preso ad un esame universitario passava in secondo
piano a quanto era accaduto. Non ho mai riflettuto così
tanto sul significato della vita come in quel momento, su quanto sia beffarda e
ingiusta. Ti chiedi anche: “Come mai non io?” e cerchi di dare una risposta che
non troverai mai.
Alla fine venne la sera. La
veglia era per le nove della sera ed io mi ero offerto per portare altri in
macchina. Il posto si trovava a Vicenza, nel quartiere di Villaggio del Sole, e
fu incredibile quante persone erano presenti quella sera. Non dissi molto agli
altri, ero abbastanza in silenzio e credo che era da molto tempo che non piansi
così tanto.
Mi colpì molto la forza di suo
padre e il dolore di sua madre, di sua sorella e suo fratello, così come quella
dei presenti. Non c’è molto altro da raccontare al riguardo, soprattutto per le
tante cose successe.
Alla fine della veglia mi colpì
la reazione di un ragazzo, un grande amico del defunto, che non era addolorato
ma abbastanza animato. Parlando con lui non riuscii a non trattenere qualche
risata e mi risollevai di morale. Sicuramente era lui quello che soffriva più
di noi, ma aveva compreso più di tutti che la vita andava avanti. Una beffa,
perché pure lui ci lasciò solamente un mese dopo.
I giorni passarono, arrivò pure il giorno del funerale, ma
solamente dopo molto tempo compresi che avevo perso una persona squisita e che
non ho avuto modo di conoscere meglio, solamente per colpe mie e mi è difficile
dire che fosse mio amico, ma credo che lui la pensi diversamente da me. Come
scrissi un anno fa, aspettami là in cielo che quando arriverò ci prenderemo del
tempo per chiacchierare, magari mentre suoni la tua chitarra.